La Cucina
Riconducibile complessivamente a quella che oggi è chiamata dieta mediterranea, la gastronomia tradizionale abruzzese attinge a ricettari popolari di un mondo agricolo e pastorale sostanzialmente parco.
Riconducibile complessivamente a quella che oggi è chiamata dieta mediterranea, la gastronomia tradizionale abruzzese attinge a ricettari popolari di un mondo agricolo e pastorale sostanzialmente parco. Alla semplicità delle preparazioni e degli ingredienti, fanno riscontro la fantasia e la creatività femminili che riuscivano a rendere molto appetitosa una mensa in cui i carboidrati avevano la netta prevalenza. Pertanto relativamente alle preparazioni tipiche di seguito illustrate bisogna considerare che mentre quasi tutti i piatti a base di pasta, legumi o verdure, costituivano il mangiare quotidiano, le carni erano cibo riservato al giorno della festa o ai conviti familiari. La descrizione, che non pùò dirsi sicuramente esaustiva, permette comunque di orientarsi e di poter, una volta seduti a tavola, avere strumenti per scegliere. Il rapporto mare campagna che in Abruzzo assume aspetti spettacolari, si concretizza, fra l’altro, nelle usanze alimentari della gastronomia locale.
Antipasto – tipo
in un ristorante o una trattoria è costituito da lonza, salame e prosciutto di montagna, formaggio pecorino e verdure sott’olio, spesso accompagnati da bruschette con varie farciture
Pasta
la pasta è un elemento forte della cucina abruzzese. Tra i formati più particolari i maccheroni alla chitarra, “carrati”, che un tempo venivano ricavati premendo con mattarelli la sfoglia su fili metallici tesi di un telaio in legno, detto appunto chitarra. Il condimento tradizionale per i carrati è il ragù con le polpettine. Continuando con la pasta all’uovo fettuccine, ravioli di ricotta e lasagne. La lavorazione più particolare della pasta bianca è quella dei maccheroni alla molinara o meglio conosciuti come alla mugnaia un maccherone lunghissimo e spesso condito con ragù saporito come quello di castrato. Di pasta bianca anche sagne o tajarelle per zuppe e minestre di fagioli, ceci o lenticchie. La pasta della tresca concludeva la trebbiatura, ultima fatica del calendario agricolo: la pasta era bianca, “sagne appezzate” o anche bucatini, condite rigorasamente con ragù di papera muta. Il Timballo alla Teramana è un piatto antico e tipico dei menù delle cerimonie importanti.
Carni
tra le carni l’agnello ha un ruolo di primo piano. Dalla carne particolarmente tenera e saporita, viene cucinato in vari modi: dallo spezzatino cacio e uova “casce e ove” all’agnello arrosto, dallo spezzatino in bianco alle costolette inpanate o alla brace. La pecora viene usate prevalentemente per uno stracotto “pecora alla callara o coatto” per per gli “arrosticini” detti ‘rrustelle, diffusissimi. La carne di maiale si consuma sopratutto insaccata trasformata in salsicce, di carne e di fegato, salame, lonza e prosciutto. Presenza immancabile in tutte le feste di paese e nei mercati settimanali la “porchetta”, piccolo maiale disossato, farcito con spezie, poi arrotolato e cotto al forno a legna, viene venduta come farcitura di un croccante panino. Ancora, coniglio alla cacciatora, con peperoni e funghi, anatra e pollo arrosto e la galantina, gallina o tacchinella di media grandezza ripiene che rendevano eccellente il brodo e fornivano un raffinato secondo piatto.
I Contorni
la misticanza, insalata di erbe anche spontanee, broccoletti ripasati in padella con aglio e olio, peperoni arrostiti, patate sotto il coppo. Il coppo è una sorta di campana che viene posta sotto le braci e la cenere del focalare. Le patate, intere con la buccia, al di sotto del coppo, subiscono una cottura asciutta che le rende particolarmente gustose.
I formaggi
la composizione botamica dei pascoli è l’elemento fondamentale del pecorino abruzzese. Tipico è il pecorino farindolese, prodotto in quantità limitate in una ristretta area del versante orientale del Gran Sasso d’Italia. Nasce dalla lavorazione più tradizionale del latte di pecora munto a mano caratterizzata dall’uso di caglio estratto dallo stomaco di maiale che conferisce al prodotto sapore ed un profumo particolare. Il pecorino di farindola dalla caratteristica crosta striata dovuta all’impronta dei cestini di giunco in cui avviene la sgrondatura, può essere consumato fresco, fritto pastellato, parzialmente stagionato (incerato) o, infine, stagionato, anche sott’olio, ottimo sia per la degustazione che grattugiato a complemento dei piatti della tradizione abruzzese. Avvicinandosi alla Majella le specialità casearie cambiano aspetto e aumentano di numero cosi che entrati nel punto vendita di un caseficio decidere cosa acquistare richiede una buona dose di sicurezza. Ad essere solleticati sono l’occhio ed il palato perchè la tradizione impone che ad ogni impasto corrisponda una forma, ad ogni stagionatura un colore: vari tipi di caciotta, cacioricotta, caciocavallo, burrate e scamorze. Da consumarsi freschissimi la giuncata e la quagliata.
Il pesce
tra i pochi piatti a base di pesce delle zone interne la frittura di piccole alici detta papalina e stoccafisso e baccalà in umido con cipolle e patate.
Seguendo il litorale, che da Casalbordino arriva fino a Vasto, vige il brodetto che esige essenzialmente la freschezza della materia prima e la consocenza di più di un segreto. Le seppie e i polipi devono essere tagliati a piccoli pezzi e tutte le teste devono essere bollite a parte per ottenere il brodo.
I Dolci
I Cacionetti sono fritti a forma di raviolo caratteristici del periodo natalizio. L’impasto, sottilissimo e molot friabile, contiene un ripieno dolce e aromatico a base di ceci, castagne, miele e mandorle o marmellata d’uva. Sempre a Natale si preparano le Sfogliatelle, cuscinetti di pasta sfoglia ripieni di marmellata e mandorle. Fa ormai parte della tradizione natalizia locale il Parrozzo, caratteristico di Pescara, inventato dal pasticcere Luigi D’Amico su ispirazione di Gabriele D’Annunzio e che ricorda il “pane rozzo” a forma di cupola preparato dai contadini con il granturco. La Cicerchiata, palline di pasta fritta, simili ai grani della cicerchia, antico legume locale, amalgamate con canditi e miele e le Chiacchere o Frappe, pasta sottile fritta e spolverata di zucchero a velo, sono tipici nel periodo di Carnevale. Altri dolci della tradizione sono i Mostaccioli, dolcetti a base di miele e mandorle, spesso ricoperti di cioccolata, Amaretti e Spumini, pasticcini diversi nel legare gli albumi alle mandorle, insieme alla Pizza dolce, pan di spagna bagnato con rum e alchermes farcito con creme, non mancavano mai sulla tavola in occasione di feste e ricorrenze. Per Pasqua dolci con forme propiziatrici di fertilità e prosperità decorati con uova. Le Neole o Ferratelle sono tra i dolci più tipici. Sono ottenuti schiacciando una noce di impasto tra le piastre di un utensile chiamato “ferro”, assimilabile ad una pinza, arroventate sul fuoco del focalare. Le neole si mangiano sia semplici che accoppiate con all’interno uno strato di marmellata. In alcune zone si usa il ferro con le piastre rotonde che permette di arrotolare le neole a cono e riempirle con crema.
L’Olio di Oliva
Protagonista immancabile della gastronomia abruzzese è l’olio di oliva. L’alta qualità dell’olio d’oliva prodotto fa si che sia classificato quasi interamente come extra vergine.
Zafferano
Tra un processo e l’altro dell’Inquisizione spagnola, il domenicano padre Santucci da Navelli trovò il tempo e il modo di riportare al paese natio qualche bulbo ben nascosto. Infatti, alla corte di Ferdinando e Isabella erano previste pene severissime non solo verso moriscos e marrani, mistici e protestanti, ma anche per coloro che avessero fatto varcare, ai preziosissimi bulbi, i confini della cattolicissima nazione. Furono tre, secondo la storia mischiata a leggenda, le “cipolle” che vennero calate un bel giorno nella fertile terra della Piana. Il monaco ci lavorò sopra, correggendo la tecnica di coltivazione spagnola e creandone una tutta locale. E quella volta la scampò proprio bella: gli spagnoli non si accorsero di nulla e il paese trovò d’incanto quella che, per secoli, è stata la sua sola risorsa e che oggi è tornata al centro dell’attenzione con un articolato processo di rilancio di una coltivazione diventata anche oggetto di studio e di ricerca. Da allora (XIII-XIV secolo) lo zafferano di Navelli è tornato a varcare di nuovo i confini. Oggi è simbolo del paese in Italia e all’estero, dove viene esportato. Tra i mercati preferiti c’è quello tedesco. Ma ai giorni nostri la preziosa spezia ha assunto il nome di zafferano dell’Aquila, un marchio dietro al quale si nasconde ancora una produzione genuina, contadina. Non sono macchine, ma mani callose e operose a piantare i bulbi, raccogliere i fiori (operazione che si svolge all’alba, prima che il sole si levi provocando l’apertura dei petali) separare gli stimmi (la parte rossa, dalla quale si ricava il prodotto finito) dagli stami e dal fiore campanulato e curarne l’essiccazione. Un lavoro fatto a mano “perché le macchine rovinerebbero tutto”, come fa osservare Silvio Sarra, 70enne presidente-fondatore della cooperativa Altopiano di Navelli che produce il ricercatissimo zafferano dell’Aquila venduto nelle caratteristiche bustine oppure nei vasetti. Un prodotto che ha ottenuto, di recente, anche l’importante riconoscimento Dop (Denominazione d’origine protetta). Insomma, è diventato un marchio tutelato e inconfondibile, al riparo dai diversi tentativi di imitazione che, oggi come ieri, sono all’ordine del giorno. La spezia cantata nella Bibbia (Cantico dei Cantici) e da Omero, da Ippocrate e da Ovidio, il fiore violaceo che al tempo dei romani scendeva giù dai bei soffitti a cassettoni come pioggia profumata – per allietare la mensa degli imperatori – è al centro di un programma di rilancio. Quest’anno se ne sono raccolti 50 chilogrammi ed è stata, secondo quanto riferiscono gli stessi produttori di Navelli, una stagione buona. Sono stati toccati – e aperti uno a uno – qualcosa come dieci milioni di fiori. Insomma, un lavoro certosino che i più anziani continuano a fare animati da una grande passione, e che non tutti, tra i più giovani, hanno voglia di proseguire. Per tutti questi motivi, il sindaco di Navelli Paolo Federico ha messo lo zafferano alla base di un programma finanziato con fondi europei (progetto Interreg IIIB area Cadses per lo sviluppo di un turismo sostenibile) “che”, spiega il sindaco, “ha come obiettivo principale la rivalutazione di una coltivazione che va scomparendo. Lo zafferano è stato associato al ricco e variegato sistema delle erbe officinali che tanto successo stanno ottenendo nella medicina e nella cucina moderna. L’oro rosso è da sempre legato alla nostra piccola comunità e, nel tempo, ha saputo regalarle notorietà e ricchezza. La mia speranza è che le attività realizzate con il progetto possano dare nuovo impulso alla crescita turistica ed economica del nostro territorio, grazie a un rinnovato interesse verso le sue innumerevoli risorse”. I 50 chilogrammi di adesso sono ben poca cosa rispetto ai numeri del passato. Si narra che se ne producessero addirittura 4000 nel 1500. Lo zafferano divenne persino oggetto di tassazione: la costruzione della basilica di San Bernardino all’Aquila venne finanziata grazie alle gabelle imposte sulla preziosa spezia. Lo zafferano, poi, divenne la principale merce di scambio su un mercato che dall’Aquila raggiungeva Firenze, Milano, Venezia e da lì approdava sul suolo straniero. Inevitabile, però, giunse il declino: la peste, le guerre, i terremoti e le imposte sempre più elevate fecero calare la produzione a un solo chilogrammo, nel 1646. Sotto i Borboni di Napoli ci fu una certa ripresa della coltivazione, poi scemata di nuovo fino ai numeri attuali. Oggi la cooperativa Altopiano di Navelli, che ha sede nella frazione di Civitaretenga, conta 80 associati, che rappresentano circa il 95 per cento del totale dei produttori. Il costo medio al consumatore dello zafferano è di 14 euro al grammo. Nata nel 1971 con 45 aderenti, la cooperativa raccoglie il prodotto _ che viene conferito dai singoli associati _ e si occupa della trasformazione e del confezionamento. La rete di vendita è capillare, ma non si serve di nutrite schiere di rappresentanti. Lo zafferano, insomma, si “vende” da solo. Finisce anche all’estero, ma prioritariamente vengono prese in considerazione le richieste che giungono dall’Italia. C’è anche un mastro pastaio abruzzese che si serve della spezia per farne un formato particolare e dall’inconfondibile colore giallo. Del resto, anche oggi, come pure nei secoli passati, l’impiego principale dello zafferano è quello della cucina. Basta appena un pizzico di “oro rosso” per far cambiare colore e sapore al risotto, che finisce per assumere anche il caratteristico aroma. Molti altri piatti della cucina mediterranea vengono realizzati con gli stimmi rossi essiccati. Si va dai primi piatti, ai secondi di carne e di pesce fino alle frittelle allo zafferano e al gelato “giallo”. Insomma, zafferano in tutte le salse. Dagli stimmi rossi è stato ricavato persino un liquore, denominato “Zaff 99”, arricchito anche di altre erbe aromatiche e considerato un ottimo digestivo. Da alcuni mesi, poi, lo zafferano viene studiato anche in laboratorio. Il convento di Sant’Antonio a Civitaretenga (XIII secolo) oggi, dopo un attento restauro, si candida a diventare la sede della produzione, lavorazione e promozione, nonché dello studio e della ricerca non solo sullo zafferano ma anche sul tartufo, l’olio di oliva e le varie piante officinali. La costruzione di una serra, la costituzione di un laboratorio, l’organizzazione di seminari, mostre e punti vendita sono le principali iniziative intraprese dal Comune per recuperare una produzione locale di inestimabile valore “e”, come si sottolinea da più parti, “trascurata da troppo tempo”. Il progetto ha coinvolto anche le scuole. Ha ottenuto un grosso successo, infatti, l’iniziativa “Conosciamo lo zafferano” che ha portato i giovani studenti delle medie inferiori in visita guidata al convento di Sant’Antonio, allo scopo di sensibilizzare le nuove generazioni alla conoscenza delle tradizioni locali. Le visite si sono svolte durante le fasi della raccolta dello zafferano, che avviene a partire dalla metà di ottobre, e hanno consentito ai ragazzi di conoscere la storia di questo fiore “miracoloso”. Tra l’altro, lo zafferano è diventato pure un gioco. Infatti, nell’ambito di un progetto nazionale – predisposto dal ministero per l’agricoltura e patrocinato dalla presidenza della Repubblica – la classe quarta C (sesto circolo) della scuola elementare Pineta di Pescara ha vinto il primo premio del concorso “Che gusto c’è?”, con la realizzazione di un gioco di società denominato “L’oca gioca con lo zafferano”. I prodotti tipici di Navelli – oltre allo zafferano vanno citati i ceci, caratteristici in quanto piccoli e saporiti, l’olio di oliva, per il quale è stato organizzato anche un corso di assaggiatori (sta per essere avviata la seconda edizione, dopo il successo della prima) e le mandorle, sia amare che dolci – hanno trovato un momento di diffusione e di promozione nella mostra mercato denominata “Il chiostro dei sapori”, dove sono state esposte e divulgate anche le qualità delle piante officinali (malva, genziana, camomilla, sambuco, elicriso, ginepro e timo). Insomma, Navelli vuole rimettere al primo posto i suoi prodotti tipici, tra i quali lo zafferano, che brilla di luce propria. Quei tre bulbi trafugati dalla Spagna secoli e secoli fa possono tornare a essere, oggi, il punto di partenza per un nuovo rilancio economico.
Ultimo aggiornamento
21 Marzo 2013, 16:44